FESTE e RICORRENZE

di Paola E. Silano (tratto dal libro: Tra lingua, storia e folclore di Villanova del Battista)

GENNAIO

Quanno jennaro lu vole fà, pure li puorci face smurscinijà

6 gennaio: Epifania

La Befana, simbolo di Madre Natura, è la vecchia che giunta alla fine dell’anno può anche morire. Prima di soccombere, però, regala qualcosa, vale a dire i semi che le permetteranno di rinascere a primavera.

A Villanova, il massimo che i bambini potevano in passato aspettarsi come dono per l’Epifania, era qualche dolcetto, magari nella calza appesa al camino.

14 gennaio

In questo giorno, per un’antichissima tradizione villanovese, si osserva un digiuno di penitenza per essere liberati dagli effetti nefasti di fulmini e tuoni, è il cosiddetto “Lu riun’ ri li trònele”. È consentito solo un frugale pasto a base di pane e acqua.

Il 17 gennaio, il giorno di S. Antonio Abate, ha inizio il lungo periodo del Carnevale, che si protrae fino alla Quaresima.

Sant’Antuono mascher’e suono

Il 20 gennaio è giorno dedicato a S. Sebastiano. A Villanova non si fa festa, ma secondo la tradizione bisogna osservare delle regole ben precise: il 20 gennaio non si ammazza il maiale e non si lavora la sua carne, altrimenti tutto andrà a male; non si travasa il vino altrimenti diventerà aceto. Il giorno della settimana in cui capita in un dato anno S. Sebastiano (lunedì, martedì…), sarà per tutto quell’anno giornata in cui valgono le regole menzionate.

FEBBRAIO

Febbraro curt’e amaro, si febbraro nun fibbrarea, marzo male penza

Si febbraro fusse tutto, ferrasse pure lu vin’andò ri vutte

Ventuno Febbraro nott’e ghjuorn’appara.

Il Carnevale, nel medioevo, cominciava già a Santo Stefano, poi la Chiesa poco alla volta riuscì a posticiparlo, così l’inizio si assestò, più o meno ovunque, al 17 gennaio, giorno di S. Antonio Abate. Viene comunemente considerato la reinterpretazione cristiana di una festa che segnava il passaggio da un anno all’altro.

In passato, il periodo di Carnevale era molto atteso nel nostro paese, perché portava divertimento, spensieratezza e allegria. Il 17 gennaio, un bannitore col treppito annunciava per le strade l’inizio dei festeggiamenti. Quasi ogni sera, in particolare il giovedì e la domenica, giornate in cui si riusciva persino a mangiare un po’ di carne, i giovani e i ragazzi, radunatisi per le strade, scherzavano e ballavano al suono di fisarmoniche e organetti; i bambini giravano per le case a chiedere qualcosa da mangiare, recitando questa cantilena:

Carnuàle carnualicchio,

rammi na cocchia ri savizicchij

e si nu mme ri bbuo’ ra’

che si pozzena ‘nfracita’.

È bene precisare che le donne non partecipavano a nessun divertimento pubblico e che dovevano arrivare almeno gli anni Sessanta perché si aprisse per loro qualche spiraglio di libertà.

Il giorno di Carnevale, di martedì grasso, si faceva la sfilata, a cui partecipavano grandi e piccoli, mascherati alla meglio. Infatti, ci si travestiva con gli indumenti dei propri famigliari o conoscenti, e poiché erano i maschi a festeggiare, si sceglievano quasi sempre vestiti da donna.

Il culmine della sfilata era il processo a Carnuàle, un fantoccio di paglia ammanettato, scortato da due carabinieri e trainato su di un carro. Il processo si svolgeva in piazza, davanti alla chiesa madre dedicata all’Assunta, ma detta di San Giuann’ ammonte, e vi partecipavano attori che impersonavano il giudice, l’accusa e la difesa. Si coglieva allora l’occasione per mettere in risalto aspetti negativi della vita paesana, facendo riferimenti precisi a eventi e persone reali. Naturalmente, la conclusione era sempre un giudizio di morte per Carnuàle, condannato al rogo. Suo boia, per un lungo periodo, fu Lorenzo Silano (vissuto tra Ottocento e Novecento, grande esperto in incantesimi vari, nei quali si cimentava dopo aver consultato un vecchio librone), che si tingeva volto e mani con polvere di carbone e da lì il soprannome “caravone”. Il processo a Carnevale è un rito piuttosto comune in Italia, che attesta la volontà delle piccole comunità di operare una specie di catarsi collettiva, prima attraverso una sorta di esame di coscienza e poi accanendosi contro un capro espiatorio.

A Carnevale si mangiavano scarti di carne del maiale con la minest’acchiatizza; frittata con peperoni all’aceto e salsiccia affettata; pizz’a lu chingh e strufoli.

Pizz’a lu ching

Era un pane che non si conservava, ma si preparava di volta in volta perché buono da mangiare solo se caldo. Nell’impasto c’era farina di granturco, sale e acqua bollente, volendo si poteva aggiungere un po’ di sugna e qualche cicola (i pezzettini non sciolti del lardo messo a friggere). Si cuoceva sul fuoco del caminetto in un apposito tegame di terracotta, detto appunto lu ching, chiuso con un coperchio di alluminio (su cui si poteva apporre altra brace).

Minest’acchiatizza e carne ri puorco

La minest’acchiatizza è l’insieme di verdure spontanee, raccolte nei terreni non coltivati, messe a bollire e poi immerse con aglio e peperoncino nel brodo di cottura di cotenna, orecchio, zampe, costolette, pancetta, guance, coda e salsicce di cotechino di maiale.

La minest’acchiatizza

stuta la cannela

e mpana la pizza.

Questa srufetta si riferisce al fatto che la minest’acchiatizza è verdura trovata nel terreno e quindi mischiata a tante erbe, difficile da pulire completamente. Allora, lo “stuta la cannela” (spegni la candela) vuol dire che non bisogna andare troppo per il sottile nel mangiarla.

Il 2 febbraio è il giorno della Candelora, sopravvivenza di un’antica festa dei Celti, che agli inizi del mese celebravano la festa della “Luna rinascente”.

A cannelora, viern’asciuto fora; si chiov’e tira viento, viern’è ancora rinto. Risponne la vecchia arraggiata: “Stac’ancora qua”.

A cannelora, viern’asciuto fora, ripara l’ereva pi lu vuovo ca la pecora si la trova.

Si diceva un tempo, in tante parti d’Italia come qui da noi, che nel giorno della Candelora l’orso si affacciava dalla tana: se vedeva bel tempo, ritornava dentro, se vedeva che il tempo era cattivo, usciva.

E ancora, si credeva che se in questa giornata c’era il sole, sarebbero seguite 40 giornate di mal tempo, se invece pioveva, sarebbero seguite 40 giornate di sole.

Nel giorno della Candelora, in chiesa si benedicono le candele, che si accendono all’inizio della messa e si spengono dopo la lettura del Vangelo. Esse sono portate a casa e riaccese, come forma di protezione, quando ci si ammala, se c’è un forte temporale e se qualcuno si trova in punto di morte. Le candele possono anche essere regalate agli infermi.

Il 3 febbraio è il giorno di San Biagio.

Nel passato di Villanova, in chiesa, in questo giorno si benediceva la gola, a cui si apponevano due candele incrociate.

San Biagio è il protettore della gola perché si racconta che una sua benedizione salvò un bambino che stava soffocando per colpa di una lisca che gli si era conficcata in gola.

La giornata del 29 febbraio, ogni 4 anni, fa sì che l’anno sia bisestile. Al tempo dei Romani, il giorno aggiunto da Giulio Cesare al calendario, cadeva nel sesto giorno dalle Calende di marzo, così esso venne detto bisextus e l’anno bisexstilis.

A Villanova, come avviene un po’ dappertutto, l’anno bisestile è considerato funesto (Bisesto, anno funesto).

MARZO

Marzo sicco massaro ricco, nun tanto sicco si no palicco

Marz’ lu prim’ nureco ti fazzo, aprile roije norech’a file

Marzo pazzerello, guarda il sole e prendi l’ombrello

Se marzo’ngrogna, face zumbà pil’e ogna

Finito il carnevale, si entra nel periodo della Quaresima, aperto dal Mercoledì delle ceneri. In questa giornata, a Villanova, si osserva il digiuno e l’astinenza; nel pomeriggio si celebra la messa delle “Sacre Ceneri”. La cenere utilizzata dal prete per segnare la fronte dei fedeli, è quella che si ricava bruciando i ramoscelli di ulivo benedetti nel giorno della Domenica delle Palme dell’anno precedente.

Anticamente, durante la Quaresima, si osservavano scrupolosamente i fioretti che ognuno proponeva per se stesso e nessuno mangiava carne per quaranta giorni; ora questa regola si osserva almeno il venerdì, giornata in cui si ricorda in chiesa la passione di Cristo con il rito della Via Crucis.

Un tempo in ogni famiglia del paese si costruiva, secondo il gusto e la creatività personali, la Quarantana, una bambola di pezza (piuttosto bruttina, rassomigliante a una vecchia) appesa all’esterno della casa; ad essa si apponeva una patata nella quale erano infilate sette penne di gallina.

Le penne simboleggiavano le 7 settimane della Quaresima così ogni domenica se ne toglieva una. L’ultima penna si sfilava nel giorno di Pasqua. Quest’usanza, comune in molte parti d’Italia, dovrebbe essere la cristianizzazione della figura pagana di una vecchia decrepita che simboleggiava l’anno giunto alla fine.

19 marzo: S. Giuseppe.

Nel giorno di S. Giuseppe, ma anche in quelli dell’Immacolata, di S. Lucia, di S. Giovanni del Colera, di S. Caterina e dell’Annunziata, il popolo villanovese si riuniva di sera accanto a grandi falò rionali. La legna era raccolta nelle case e la brace, poi, ridistribuita. Un palo centrale poteva costituire il fulcro del cumulo, attorno al quale, mentre il legname ardeva, si faceva un po’ di baldoria; il rito religioso consisteva nella celebrazione della messa durante il giorno.

Attorno al falò si abbrustolivano legumi, castagne e patate, si beveva vino e si ballava. Ora, i ragazzi che ancora si divertono a fare i falò, arrostiscono salsicce, bistecche e castagne.

25 marzo: L’ Annunziata

Lu juorno ri l’Annunziata, si lu cucùlo nunn’è turnato, o sta ‘ngalera o sta malato.

Il cuculo, allora, annunciando la Primavera, per noi è un indicatore dell’arrivo del bel tempo.

APRILE

Abbrile chiove chiove, maggio un’e bbona, luglio manc’ uoglio

Quatt’ abbrilante, juorni quaranta

Il 1° aprile è riconosciuto un po’ ovunque giornata di scherzi: il pesce d’aprile. Forse si è scelto questo giorno, considerato tradizionalmente infausto, per esorcizzare attraverso giochi e scherzi le negatività ad esso intrinseche. L’immagine del pesce, inoltre, potrebbe essere legata all’idea di fecondità in un momento di rigenerazione e rinnovamento ad inverno finito, oppure è più semplicemente simbolo del Cristo.

Il clima della giornata del 4 aprile determinerà, secondo una credenza, quello dei giorni che seguono: se fa freddo si avranno quaranta giorni di cattivo tempo; se fa caldo si avranno quaranta giorni di bel tempo. Il 4 aprile si seminano le verdure dell’orto.

La Pasqua è una festa mobile, infatti cade la domenica successiva al plenilunio che segue l’equinozio di primavera. Può capitare dal 22 marzo al 25 aprile. Il periodo pasquale, a Villanova come in tutta l’Irpinia, è molto denso di attività e riti.

Un proverbio locale dice “Parma ‘mpossa, gregna ‘ndrossa”, cioè se piove nel giorno della domenica delle Palme ci sarà un buon raccolto di grano.

Nel giorno della Domenica delle Palme, si benedicono in chiesa le “palme” (i rami d’olivo), che a volte sono intrecciati in ghirlande o uniti a fronde di alloro e ad altri fiori (primule gialle, mimose, violette, narcisi). Dopo la benedizione, i contadini portano dei rametti nei campi coltivati, con l’augurio che ci possa essere un’abbondate produzione di frutti; i rametti benedetti sono regalati, conservati in casa o offerti ai defunti nel cimitero. Le “palme” non si buttano mai e quando sono secche si possono bruciare; la cenere è sparsa nei campi o al cimitero, oppure è data al prete che l’utilizza il mercoledì delle ceneri.

In passato, i giovani Villanovesi prima facevano benedire in chiesa, sull’altare, una palma vera e propria o un semplice rametto d’ulivo, poi vi appendevano un oggettino d’oro (tra la curiosità di tutte le donne presenti in chiesa), quindi lo regalavano alla fidanzata. A Villanova, per Pasqua si prepara lu saburco, il sepolcro. Semi di cereali e legumi si fanno germinare al buio, in vasi o cassette; il giovedì santo si mettono in chiesa davanti al tabernacolo e lì restano fino alla fine delle festività pasquali. Anche se questi germogli simboleggiano la resurrezione di Cristo, essi sono probabilmente legati a ritualità pagane. Le campane s’attaccavano il giovedì santo a mezzogiorno e si scioglievano il sabato santo a mezzogiorno. In questi giorni, allora, le funzioni religiose erano annunciate non dalle campane, ma da ràgane e tràccole, suonate dal banditore per le strade. La sera del venerdì santo, per il paese sfilava una processione molto commovente; si portava a spalla una bara di vetro con la statua del Cristo morto all’interno e dietro seguiva la figura dell’Addolorata, velata e vestita di nero. I bambini avevano in mano candele accese inserite in contenitori colorati. Il ritmo era dato dal suono di ràgane e tràccole.

Per ottenere un buon raccolto di patate, bisogna interrarne i tuberi nel giorno di Sabato Santo. In passato, a Villanova, mentre si sentiva il suono delle campane finalmente “sciolte” alle ore 12 del sabato santo, i contadini scuotevano, ziculiavano, i rami degli alberi per far sì che portassero tanti frutti. Nello stesso momento, si facevano muovere i primi passi ai neonati, per favorirne la crescita, bambini e adulti si inginocchiavano per baciare la terra e i ragazzi prima strofinavano la suola delle scarpe chiodate con l’erba ri sferracavalli (che, col suono delle campane, li avrebbe fatti diventare leggeri e veloci), poi giravano per le case con l’organino per chiedere qualcosa in dono. Sempre di sabato santo, il parroco andava a benedire le abitazioni; in esse spesso era preparata una cesta piena di uova, taralli e biscotti a cui si chiedeva una benedizione specifica. I giovani, invece, la notte del sabato, portavano le serenate con l’organetto, mentre le mamme delle ragazze promesse spose, la mattina dopo, si recavano a casa del fidanzato con la còscina piena di cose da mangiare e regalini personali.

Durante la Quaresima, un po’ per la miseria, un po’ per l’astinenza veramente osservata, si mangiava pasta fatta in casa (condita solo con sale), cicerchie, scagnozza e grano cotto senza condimento. Durante la settimana Santa, piatti tipici erano la pizza di bietole e alici, la pizza con le cipolle e i taralli noviluno (un uovo per ogni tarallo). Il venerdì santo, giorno in cui era ed è vietata la carne, si preparava la pizza con le alici, spaghetti aglio e olio e broccoli di rape.

La tradizione dell’uovo pasquale è di sicuro legata ad arcaici riti primaverili poi cristianizzati (uovo prima simbolo del cosmo, del rinnovamento periodico della natura, del ciclo delle rinascite, e poi simbolo della resurrezione).

L’ove che nsi rumpon’ a Pasqua nun si rumpono cchiù

Qui da noi, le uova entrano a pieno titolo in tante ricette della tradizione legate al periodo pasquale, come le pastette, li pipatielli, la pizza chiena o casatiello, la pupa e lu pizz’panaro, preparate durante la settimana santa, ma consumate dal sabato in poi. Pupa e pizz’panaro erano le antiche “uova di pasqua” da regalare ai bambini. Erano fatti con l’impasto del pane o dei taralli; la pupa, aveva la forma di una bambola e lu pizz’panaro era una specie di cestino col manico; all’interno di entrambi c’era un uovo sodo intero.

La mattina di Pasqua, a colazione, si mangiava qualcosa che in quella casa, il giorno prima, il prete aveva benedetto. Poi si accunzavano tante cuppatelle con cibi vari da donare ai parenti più anziani. Si andava a messa e, a pranzo, si potevano gustare cavaijuòli di ricotta e pollo con patate.

Nel periodo pasquale le Confraternite organizzavano Rappresentazioni sacre, in particolare il venerdì santo.

25 aprile: San Marco.

A Villanova si dice: “A Santu Marc’, chiant’ affin’ andò l’acqua”. Questo proverbio vuol dire che entro tale data, anche se la terra è molto bagnata, si possono seminare varie colture: fagioli, ceci, zucche, granturco, cicerchie, miglio, lenticchie e meloni.

Si dice pure: “A Santu Marc’, l’acqua sparte”, per indicare il fatto che in questo periodo non piove dappertutto, ma a zone.

L’ultimo sabato di aprile è il giorno dell’Incoronata a Zungoli; i Villanovesi, la domenica seguente, si recano a piedi nella chiesa del convento di San Francesco a Zungoli.

A Villanova, la settimana prima e la settimana che segue il giorno dell’Incoronata sono considerate il periodo giusto per seminare il granturco.

MAGGIO

Maggi’ urtulano, vinni lu vuov’e accatta ru grano

Maggio nunn’accattà e di festa nun ti spusà

Il mese di maggio è dedicato alla Madonna. Ciò ha origine nel fatto che, nell’antica Roma, il primo giorno di maggio si venerava la dea Maia, una Grande Madre raffigurata con una lunga veste ed un serpente in mano; i riti di “calendimaggio”, celebrando il trionfo della primavera, erano comunque diffusi un po’ in tutta Europa. Nel secolo XVI, la Chiesa riuscì a cristianizzare queste feste pagane, sovrapponendovi, appunto, il culto della Madonna.

A Villanova, riguardo al 1 maggio si dice che se è donna la prima persona vista per strada, appena svegli, si incontreranno serpenti per tutto l’anno; se si vede un uomo, si incontreranno altri rettili.

In quanto mese delle purificazioni, i Romani anticamente sconsigliavano le nozze a maggio (ma forse la credenza è legata ad antichi riti in favore dei Lemures, i morti precoci), consuetudine che a Villanova è stata rispettata fino a tempi recenti. Qui da noi la credenza originaria è stata trasformata però nel convincimento che a maggio non ci si sposa perché è il mese in cui si accoppiano gli asini: “Maggio, mese ri li ciucci”.

Ascensione (ricorre il quarantesimo giorno dopo Pasqua)

Si credeva a Villanova che, durante questa notte, gli ammalati di scabbia disposti a rotolarsi nudi sulla manna caduta proprio nel giorno dell’Ascensione in un campo seminato, potevano guarire. Inoltre, se a mezzanotte si riempiva un barile d’acqua ad una fonte con un unico cannello, l’acqua si sarebbe trasformata in olio.

Nel giorno dell’Ascensione si può chiedere del latte ad un massaro; se questi lo nega, si avvera la maledizione: “Chi pozza rivinta’ cuculo” (Che tu possa diventare un cuculo), riferita alla leggenda secondo la quale Gesù fece diventare cuculo il pastore Canercio che gli negò un po’ di latte.

Il pranzo tipico villanovese di questa giornata è: Maccheroni al latte.

  • Maccaruni cu ru latt’

Si prepara la lachena, la sfoglia, con farina, sale e acqua; si ricavano tanti tagliolini che si cuociono in una pentola colma di latte e un po’ d’acqua (bollenti) con aggiunta di prezzemolo, sale e olio. Una volta cotti, i tagliolini si mangiano immersi nel liquido di cottura.

8 maggio: San Michele

Il Lillà o Serenella, Syiringa vulgaris, l’alberello con i fiori a grappolo, bianchi o lilla e profumati, è detto a Villanova fiore di San Michele, perché in genere fiorisce entro l’otto maggio, giorno dedicato a questo santo.

Le ciliege maggiaiole o di San Michele sono le prime a maturare, anche se il frutto è piccolo e piuttosto insapore.

17 maggio: San Pasquale Baylon. In Irpinia, questo santo si invocava così:

San Pasquale Bailonne

Protettore delle donne

famm’ave’ nu bellu marito

janco, russ’e sapurito.

Il 22 maggio è il giorno dedicato a Santa Rita; a Villanova si benedicono le rose in chiesa e si conservano essiccate per tutto l’anno. Se vengono immerse in un po’ d’acqua tiepida, si dice che hanno un’azione terapeutica per i problemi agli occhi. La benedizione delle rose trova fondamento nel miracolo di Santa Rita, la quale in punto di morte chiese e ricevé in dono una rosa, fiorita in pieno inverno, sotto la neve.

L’ultimo venerdì di maggio si partiva da Villanova in pellegrinaggio verso l’Incoronata di Foggia. Il viaggio durava tre giorni e in genere si andava e si ritornava a piedi; qualcuno addirittura era scalzo e per penitenza si poteva anche non toccare cibo. Le due notti si trascorrevano a lu Pagliarone, un capannone abbandonato verso Castelluccio dei Sauri. Arrivati al santuario, si facevano attorno all’edificio tre giri (li tre turnijej); dentro ci si segnava la fronte con l’olio santo e si partecipava alla messa; quando si andava via, non si dovevano volgere le spalle al santuario.

Chi andava col traìno poteva anche proseguire verso il santuario di San Michele sul Gargano. La comitiva, che partiva all’alba tra i saluti di quasi tutto il paese, portava appresso molte cose caricate sugli asini (cibo, tegami, ombrelli, coperte), perché il viaggio totale poteva durare anche una settimana. Durante il tragitto si intonavano litanie religiose o gli stessi canti che accompagnavano il lavoro nei campi. Il ritorno era annunciato da una specie di staffetta; chi era rimasto in paese si radunava per accogliere i pellegrini e sfilare tutti insieme, compresi gli asini infiocchettati, fino alla chiesa, dove si riceveva la benedizione del prete.

Il pellegrinaggio a monte Sant’Angelo sul Gargano è antichissimo, infatti il santuario di san Michele Arcangelo fu costruito tra il VII e l’VIII secolo ed ebbe Longobardi, Celti e Anglosassoni tra i suoi devoti. La figura del santo aveva assunto molti attributi degli dei guerrieri della mitologia germanica ed il santuario, secondo la leggenda, fu eretto vicino alla grotta in cui San Michele era apparso più volte.

GIUGNO

Giugno falce in pugno

La festa del Corpus Domini cade prevalentemente a giugno. A Villanova, ora come in passato, si fa una processione per le strade del paese e, lungo il percorso, prima del passaggio dell’ostensorio, si lanciano petali di vari fiori (rose, caprifogli, papaveri e ginestre) raccolti in cestini. Il prete si ferma agli altarini preparati dai fedeli dei vari rioni, lì si prega e si omaggiano le icone di Gesù.

Il 13 giugno, giorno dedicato a S. Antonio, dopo la messa, viene benedetto il pane, poi distribuito ai presenti. Una statua della chiesa di Villanova raffigura il santo con un pezzo di pane in mano, in ricordo del miracolo del pane dei poveri (una donna ricevé per intercessione di S. Antonio il miracolo della risurrezione del figlio morto annegato e, in ringraziamento, promise di distribuire pane ai poveri). In passato, il Villanovese che aveva ricevuto una grazia (la guarigione per intercessione di S. Antonio) per 13 mesi portava come abito un saio.

I gigli bianchi, qui da noi, sono chiamati di Sant’Antonio, perché sbocciano proprio in questo periodo.

24 giugno: S Giovanni Battista.

Questa festa è molto popolare in Occidente perché la devozione a S. Giovanni Battista si è sovrapposta agli antichissimi riti del solstizio d’estate, periodo sacro che metteva in comunicazione il mondo visibile col mondo invisibile.

Il giorno della natività di S. Giovanni Battista è una data importante per Villanova perché questo santo è il patrono e il protettore del paese. In un passato piuttosto lontano, il giorno 23 era vigilia e nella notte tra il 23 e il 24 si officiava la messa. La processione si faceva solo in chiesa, dove si baciava un’immagine di S. Giovanni in culla e nell’atto di compiere il primo miracolo. In seguito, il giorno 23, per un certo periodo e dopo il 1866, si portò in processione la statua di S. Giovanni dalla chiesa omonima alla chiesa parrocchiale; il 16 luglio la statua era riportata nella sua collocazione abituale.

Nel corso della mattinata del 24, lungo la via della Meoccia, si svolgeva una grande fiera del bestiame, mentre le strade del centro abitato erano piene di bancarelle. I massari offrivano in chiesa, in onore di S. Giovanni, formaggio e ricotta e poi si benedicevano gli animali che erano sistemati sotto i muraglioni della chiesa. Sembra che un certo Giuseppe Iuorio inventò il cosiddetto “zampillo”, vale a dire un aggeggio che aspergeva automaticamente il bestiame. In seguito, la benedizione fu impartita o direttamente nelle stalle o lungo le strade, dove gli animali erano legati ai mulinielli, o anche davanti alla chiesa. Come in tutte le occasioni di festa, si organizzavano giochi, palii e gare di corse col sacco e, invece di mangiare come al solito farinata di granturco, si preparava la polenta di farina bianca, che era una delle poche concessioni alimentari possibili. Tutti i fidanzati regalavano alle innamorate una cuppata di noccioline, biscotti, taralli e torroni.   

Nella notte di S. Giovanni, gli sposi mettevano in acqua all’aria aperta (a la sirena) un cardo a cui era stata tagliata l’estremità e bruciacchiato tre volte. Se prima dell’alba veniva ritrovato fiorito, se ne traevano buoni auspici; se non rifioriva era presagio di cattivo augurio. Lo stesso rito può essere eseguito da una ragazza che vuole conoscere il suo destino in amore. Queste credenze naturalmente affondano in quella comunione tra mondo reale e sovrannaturale cui si è accennato, comunione che ha dato anche origine alle leggende sul gran Sabba delle streghe sotto il Noce di Benevento.

Il 24 giugno, allora, giorno magico per eccellenza, si raccolgono a Villanova le noci per la preparazione del liquore nocino. Le noci devono essere in tutto 24, raccolte prima che sorga il sole; se si aspetta il sorgere del sole, le noci non avranno più l’effetto benefico della manna che cade su di esse proprio in quel giorno, prima che albeggi.

Si credeva anche che se questa manna caduta sulle colture era dolce, gli insetti che la toccavano morivano; se era amara, volavano via.

Le mele dette, a Villanova, di S. Giuanni, maturano per il 24 giugno e sono verdi o gialle, piccole e dolci; li peruni ri San Giuanni, gialli e ovali, maturano per la stessa data; la coccinella viene chiamata in dialetto: “vola vola San Giuanni”. Dice un detto: Vola vola San Giuanni, lassa lu cucch’e se n’abbola.

Vola vola San Giacchino

piglia lu sacch’e va lu mulino

vola vola Santo Nicola

piglia lu libbro e va a la scola

vola vola San Giuann’

t’uo’ fa’ stu vol’ auann’?

29 giugno: San Pietro e Paolo

Ancora ijè verè la serpe, già chiam’a Santupaolo

A Villanova si dice che chi nasce oggi è “incantatore di serpenti”: questa persona non potrà mai ricevere danno dai serpenti che incontrerà sul suo cammino. La credenza è legata al miracolo di San Paolo che, morso da una serpe, non ne risentì minimamente.

A Santu Pietro: o verde o sicch’, miétil’

Il proverbio dice che entro questa data è bene mietere.

LUGLIO

Siemini quanno vuoi ché a luglio mieti

2 luglio: Madonna delle Grazie

Sembra che in questo giorno li farricielli colpiscano spesso il territorio di Villanova, così come avvenne tanto tempo fa, quando una fortissima grandinata distrusse tutto il raccolto.

10 luglio: Santa Felicita

In passato a Villanova era usanza recarsi in pellegrinaggio alla chiesa di Santa Felicita verso Rocca San Felice.

Quando si faceva notare ad un contadino che aveva tracciato male i solchi, questi soleva rispondere: L’addrizza n’acqua ri Santa Felicita, per indicare una forte pioggia di luglio.

16 luglio: Madonna del Carmelo

Nel passato di Villanova, in questo giorno, si facevano una fiera e una festa abbastanza importanti.

Li peruni ri lu Carmine, gialli e allungati, maturano per il 16 luglio.

Terremoto del 23 luglio 1930

Questo terremoto interessò tutta l’Alta Irpinia, ma fu particolarmente distruttivo a Villanova e ad Aquilonia. Nel nostro paese ci furono 166 morti, 400 case crollate e 200 case lesionate, l’intensità era del 9°-10°. Nel 1980 si è ricordato il cinquantesimo anniversario della scossa del 1930 con l’apposizione di una lapide commemorativa davanti al municipio.

26 luglio: Sant’Anna

A Villanova una varietà di mele (medie e gialle) e una varietà di pere (tondeggianti, dolci e profumate) sono dette di Sant’Anna.

In un’annata particolarmente arida, si ritiene che almeno per Sant’Anna o per Santa Felicita possa piovere molto.

AGOSTO

Austo cap’ ri vierno

Quanno chiove r’austo, aglianich’e musto

Nun sceglie femmen’a la festa e nunn’accattà pecure r’austo

Il 5 agosto è il giorno della Madonna della Neve.

In un passato non molto lontano,il 4 agosto si faceva la fiera del bestiame a via Pozzo e il giorno dopo era festa in paese. I festeggiamenti in onore della Madonna della Neve, però, tanto tempo prima, erano fattiin contrada Titolo, nel fondo della famiglia Iorizzo, dove c’era una chiesetta. Si organizzava una gara tra i bovari, ualàni, e riceveva un premio chi di essi tracciava il solco più dritto. Naturalmente c’erano le luminarie e i fuochi pirotecnici; di sera si esibiva una banda musicale.

15 agosto: santa Maria Assunta.

Nel 18 a.C. furono istituite, alle calende di agosto, le Feriae Augusti, le feste di Augusto; oggi il Ferragosto è stato spostato alla metà del mese e ormai ha perso il carattere pagano originario, legandolo alla celebrazione dell’Assunzione al cielo della Madonna.

In questo giorno festivo, in passato, a Villanova, non si doveva assolutamente lavorare né pulire la casa, altrimenti sarebbero successe disgrazie in famiglia:

Manco la voccola rivota r’ova (Neanche la chioccia gira le uova che cova).

Si racconta che una volta, mentre due mucche aravano proprio il 15 agosto, la terra si aprì sotto di loro e le inghiottì, e che mentre un gruppo di persone trebbiava mmiezz’a l’aria, sprofondarono tutti sotto terra insieme alla trebbiatrice.

Prima, entro il 15 agosto si doveva pagare l’affitto (in genere in grano) ai proprietari terrieri.

Il 16 agosto i Villanovesi vanno a piedi a Flumeri dove si festeggia San Rocco. Nello spiazzo della chiesa di S. Rocco, si può ammirare il Carro, trasportato lì il giorno prima.

Il 29 agosto si celebra la seconda festa annuale del patrono e protettore di Villanova, S. Giovanni Battista (questo è il giorno della decollazione del santo), festa ora più grande e più importante di quella del 24 giugno; in suo onore si realizza un obelisco di paglia: il Giglio.

La denominazione Giglio, molto probabilmente deriva dalla sagra dei Gigli di Nola, gli otto maestosi campanili costruiti in onore di San Paolino e portati a spalla per la città. Secondo la leggenda, quando il vescovo Paolino fu imprigionato in Africa e poi liberato, di ritorno a Nola, fu accolto dal popolo festante con lanci di fiori, soprattutto gigli. Da lì l’abitudine di chiamare gigli gli obelischi costruiti in ricordo del vescovo poi fatto santo e patrono di Nola, festeggiato il 22 giugno.

La tradizione dei campanili di paglia si inserisce nell’usanza abbastanza comune in Italia della costruzione di “macchine” imponenti da far sfilare per le strade di una certa comunità. Esse diventano una sfida, un simbolo di unità, un mezzo che deve stupire e incutere rispetto.

Il Giglio di Villanova è nato esclusivamente in rapporto alla festa di San Giovanni, ma la sua costruzione e traslazione possono essere considerate le fasi conclusive di tutto il lavoro richiesto dalla coltivazione del grano (del resto il nostro Giglio, in passato, era proprio fatto o con paglia o con spighe di grano).

I primi Gigli del paese (se ne ha notizia a metà Ottocento, ma non si sa quanto questa tradizione sia antica), piuttosto piccoli, alti al massimo un paio di metri, erano offerti in chiesa al santo patrono. Evidentemente l’usanza prese presto piede, così le famiglie dei costruttori si misero a gareggiare per erigere il più alto. Una foto che risale a poco prima del 1930, dimostra che c’erano almeno 2 Gigli piuttosto alti, di cui uno un po’ più grande dell’altro. Sembra che l’obelisco un tempo più famoso fosse di un certo Caniglia lo Scomunicato, poi quello dei Ciccone ebbe il vanto di essere il migliore, finché il Giglio dei Raffa divenne il più alto.

L’obelisco poggiava su di un carro di legno così come di legno era la struttura della costruzione, la cui anima consisteva in un lungo tronco di pioppo attorno al quale si lavorava. Coloro che si occupavano della sua realizzazione (il Giglio prima era steso a terra e poi innalzato con funi e puntelli) si riunivano nello spiazzo dell’aia del Demanio e si riparavano dal caldo sotto un grande olmo.

Vari pannelli di paglia di grano tenero e canne tagliate e incrociate tra loro formavano il rivestimento, di dimensione digradante verso la punta; i lavori più artistici, realizzati con spighe o paglia, erano costituiti da intrecci a trucinielli, a specchietti, a trecce e cu la paglia spaccata.  Di legno e paglia erano gli angioletti e i demoni situati nei vari piani, marionette che facevano parte della Rappresentazione del martirio di San Giovanni, legate a fili da cui erano messe in movimento quando il Giglio era collocato nel sito stabilito.

A lavoro concluso, l’obelisco, sorretto da 15 funi, era trainato da buoi attraverso un timone portante di legno di sorbo (inizialmente era trasportato a braccia; per quello dei Ciccone occorrevano 8 persone). Come avviene anche adesso, seguiva un percorso che si snodava per strade strette e in salita; infine era sistemato sott’a lu Ponte.

Prima del distruttivo terremoto del 1930 il tiro del Giglio era un rito compiuto ogni anno, poi ci fu una lunga pausa durata cinquantasette anni; la tradizione fu ripristinata nel 1986 grazie al sindaco Ottavio Silano e a molti “volontari”.

I nuovi artigiani decisero di servirsi, per il rivestimento esterno, solo di “gralito”, un’avena selvatica, Avena fatua, molto comune nelle nostre zone, perché la mietitura con macchine non rendeva più utilizzabile la paglia di grano. Il gralito è anche più semplice da lavorare per la sua duttilità e per l’assenza di nodi nel gambo. Un legno molto solido costituiva la struttura portante, il carro era di ferro e il traino un trattore.

Attualmente, viene rinnovato ogni anno parte del rivestimento esterno, fatto che rende il Giglio sempre diverso e originale. Rimane per qualche giorno nel sito prescelto (vicino alla chiesa) poi viene smontato.

Qualche giorno prima del tiro, si fa l’alzata, mentre la traslazione vera e propria avviene nel pomeriggio del 27 agosto: “S’adda tirà lu Giglio”. La persona che ha il compito di guidare il trattore che traina il Giglio si aggiudica quello che è considerato un privilegio, partecipando ad una specie di gara nella quale vince chi fa la maggiore offerta in danaro. Il ricavato va nel fondo-cassa che serve alla gestione della cerimonia. Le 16 funi che reggono l’obelisco, utili a garantirne ancora di più la stabilità durante la traslazione, sono rette da chiunque voglia partecipare.

Secondo la tradizione, se il Giglio dovesse cadere o spezzarsi, sarebbe di cattivo augurio per il paese. Si racconta a questo proposito che un signore, essendosi mostrato poco disponibile a facilitare il passaggio del Giglio (avrebbe dovuto tagliare i rami di alcuni alberi che ne ostacolavano il transito), diventò immediatamente cieco appena una delle persone che reggevano le funi gli disse:

Nun viri che nun putim’ passà: puozz’ jì cicato!”

La festa del 29 agosto aveva, ed ha ancora, un carattere sia religioso che civile.

I riti religiosi consistono nella partecipazione alla messa e nella processione per le strade del paese. Le persone che in passato portavano il baldacchino, lu palijo, si sentivano onorate di farlo, anzi addirittura gareggiavano ed offrivano del danaro per aggiudicarsene il privilegio. Ancora adesso si dice: Chè, ìj a piglià lu palijo? per indicare una persona che ha fretta di far qualcosa.

La sera del 29 si rappresentava con l’intervento delle confraternite locali la morte del santo. Sullo sfondo di quadri dipinti che raccontavano la storia della decollazione, era inscenata, all’inizio di via Ponte, una drammatizzazione, curata persino dall’illustre medico di Paternopoli Salvatore De Renzi (rifugiatosi a Villanova per qualche tempo, per sfuggire alla polizia Borbonica) e dal famoso poeta Pietro Paolo Parzanese (imparentato con i Faratro), che per ben diciotto anni venne ogni 29 agosto a predicare.

Le marionette collocate sul Giglio proprio per la rappresentazione, impersonavano la lotta tra il bene e il male: un angelo parlava al popolo delle virtù del Battista e un altro angelo combatteva contro il diavolo.

In passato, nel giorno della decollazione del santo, davanti alla chiesa di San Giovanni e sotto i tigli, si compiva anche un particolare ballo ordinato dal priore col permesso dell’abate e poi del parroco seduto all’altare del santo. Anche in questa occasione si benediceva il bestiame davanti alla chiesa, così fu istituita una pubblica fiera per il 28 agosto, ottenendone la sovrana autorizzazione nel 1809.

La festa di San Giuann’ 29, in passato, era una delle più attese dell’anno liturgico e lavorativo, quella che consentiva di godere un meritato riposo o che offriva l’occasione per sfoggiare il vestito appena comprato e fare nuovi incontri.

A pranzo si mangiava la pancetta di agnello ripiena (di carne tritata, uova, formaggio, prezzemolo, sale e pepe), pasta fatta a mano e scarola con la carne di maiale.

SETTEMBRE

Mo’ se ne vene settembre

cu la fica moscia

l’uva ciangianiello si finisce

e tu riesti cu li cannaruni lisci lisci.

8 settembre: Natività di Maria.

In passato questa giornata era tenuta in gran conto dai Villanovesi, molto devoti alla Madonna.

I due detti seguenti: “Santa Maria statti bbuono patrone mijo” e “Santa Maria che ci pozz’aiuta’; chi nn’ha finuto ri pahà li riebbiti ‘ncumincia di nuov’a seminà” mettono in evidenza il fatto che per l’otto settembre potevano scadere i contratti di lavoro o di affitto delle case.

OTTOBRE

Il 4 ottobre, giorno di S. Francesco, a Villanova erano seminate le favolate, cioè i semi di una varietà particolare di fave, piuttosto grandi.

7 ottobre: Madonna del Rosario.

La Chiesa, fin dal XVI secolo, volle onorare la Madonna del Rosario con una festa che fu istituita per commemorare la battaglia di Lepanto contro i Turchi, il 7 ottobre 1571. La vittoria della flotta cristiana della Lega Santa fu attribuita alla Madonna, la cui statua proprio in quel giorno era stata portata in processione dalle confraternite romane del Rosario.

In passato tutto il mese di ottobre, a Villanova, era dedicato alla Madonna del Rosario. La statua della Madonna del Rosario della cappella omonima, annessa alla casa della famiglia Ciccone sita al Paese Vecchio, ogni primo ottobre era portata nell’attuale chiesa dell’Assunta, dove rimaneva per tutto il mese.

Primo martedì di ottobre: San Rocco.

San Rocco è stato scelto come protettore secondario di Villanova.

In questo giorno si fa festa in paese. Di mattina la banda suona per le strade e, come ogni martedì normale, si svolge il mercato. Naturalmente c’è la messa e, di pomeriggio, i fedeli partecipano alla processione con la statua del santo e la banda. Di sera, musica e fuochi pirotecnici.

S. Rocco è raffigurato insieme a un cane che ha in bocca un pezzo di pane. Secondo la leggenda, il cane di un patrizio di Piacenza portò del cibo al santo che si era rifugiato in una capanna dopo aver contratto la peste, così per l’intervento amorevole prima del cane e poi del suo padrone, San Rocco guarì.

NOVEMBRE

A li santi si semmina pe’ tutti li canti

Il primo novembre è il giorno di Ognissanti e il 2 novembre la Commemorazione dei Defunti, queste date sono la trasformazione in ricorrenze cristiane di un’antica festa pagana: la celebrazione del Capodanno dei Celti. I Celti, nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre, si recavano nei cimiteri e lì tra canti e libagioni attendevano il ritorno dei morti sulla terra. Sopravvivenza di questa festa pagana è, nei paesi nordici, la notte di Halloween.

A Villanova di recente si è diffusa l’usanza di scavare e intagliare una zucca, quasi a forma di teschio, all’interno della quale si accende una candela. È messa fuori delle case durante la notte del 31 ottobre.

Nei primi giorni di novembre, secondo la credenza del Mondo Antico che voleva le leguminose sacre ai morti, perché le anime ne abitavano i baccelli, a Villanova si regalavano ai custodi del cimitero legumi e cereali; i bambini, il 2 novembre, recitando la “strufetta” Cicci cuott pe’ l’anima ri li muort, cicci crur pe’ l’anima ri li criatur, chiedevano di porta in porta qualcosa in regalo (la parola cicci, se pure sembra riferirsi solo ai ceci, in realtà indica tutti i legumi). Inoltre nello stesso periodo, ogni giorno e per una settimana, si andava a messa alle 4 del mattino e, in suffragio dei defunti, si offrivano al parroco sacchetti di legumi, distribuiti poi anche ai bisognosi.

Il 2 novembre, qui da noi, non si seminano mai le fave, ma si possono spargere semi di grano.

Il 4 novembre si ricordano i Caduti.

Nel 1923, il Comune di Villanova, in base a una direttiva ministeriale, deliberò di istituire un viale della Rimembranza in ricordo dei caduti della Prima Guerra mondiale. Così lungo via Costa delle Rose, la strada che porta al cimitero, furono piantati tanti “ornielli”, ognuno dei quali era contraddistinto da una targhetta in ceramica con il nome di un soldato villanovese morto. Attualmente, di tutti quegli alberi sono rimasti due soli esemplari con nessuna targhetta-ricordo. In ogni caso, il 4 novembre, i Caduti di tutte le guerre sono ricordati nel nostro paese, presso il Monumento e lo spazio ad essi dedicato, con una cerimonia pubblica organizzata da Comune e Parrocchia; non molto tempo fa, era consuetudine invitare per l’occasione personalità e banda militare, in genere quella dei bersaglieri.

L’11 novembre è giorno dedicato a San Martino, il cavaliere buono che divise il suo mantello per coprire un mendicante.

Secondo la diffusissima credenza dell’estate di San Martino, i giorni che vanno dal 9 all’undici novembre, sono particolarmente miti (la neve, al contrario, è annunciata a Villanova dall’arrivo dei pettirossi).

Qui da noi, è chiamata Santu Martin’ una farfalla notturna, ora quasi scomparsa, che proprio perché “santa” non è né uccisa né scacciata (quando entra in casa); se la si trova già morta, si preferisce lasciarla lì dov’è ed in generale si crede che porti fortuna.

A Santu Martino lu must’ addiventa vino; A Santu Martino lu maglio vatte la tina, proverbi che attestano a Villanova la conclusione della vendemmia e della vinificazione.

In passato nel nostro territorio, la vite era molto coltivata e si racconta che si produceva tanto vino che poteva essere buttato nelle cunette, impastato con la calce, usato al posto dell’acqua nelle citulère (strumenti di illuminazione ad acqua e carburo), dato da bere agli asini e dato in pasto ai maiali (mischiato con farina di mais o fave).

Ora, le bucce degli acini d’uva, la vinazza, avanzo della spremitura, sono cibo gradito agli animali (se macinate e mischiate con farina di cereali), mentre i semi, li gradd’li, vanno bene per piccioni e galline, se proprio affamati.

Le botti un tempo erano talmente grandi da essere costruite direttamente nelle cantine e i compratori del nostro vino arrivavano addirittura dalla Puglia, Lu vino buono si venne senza frasca.

Agli inizi del Novecento, il sig. Nicola Conte, enologo e titolare del locale Ufficio Postale, aveva una ditta di esportazione di vini e liquori e lui stesso produceva, tra i vini, il Greco, l’Aglianico, il Malvasia e il Cirasuolo, e tra i liquori l’Amaro degli Schiavoni e il Liquore Streghetta.

25 novembre: Santa Caterina. La festa civile si celebra con un falò.

Santa Catarinella o n’acqua o na nevicella

A Villanova le fave si seminano il 25 novembre a Santa Catarina.

Le pere di Santa Catarina, maturano a novembre e sono verdi, dure e granulose.

DICEMBRE

Natale cu lu sol’e Pasqua cu lu cippone

Prima ri Natale né friddo né fame, roppo Natale, fridd’e fame

8 dicembre: l’Immacolata. La festa civile si celebra con un falò; il giorno prima, a Villanova, era vigilia: non si mangiava carne, ma pasta fatta in casa e non condita.

Sulo roppo l’otto dicembre calava l’uoglio

A la Mmaculata l’uogli’ ha calato

Le olive si raccoglievano dopo l’Immacolata (ma era un po’ tardi perché superavano il giusto grado di maturazione); erano ammucchiate per diversi giorni in sacchi, così finiva che si riscaldavano troppo e spesso ammuffivano. L’olio estratto, in tal caso, sapeva di rancido.

Ora, fortunatamente la produzione dell’olio avviene secondo procedimenti e tecniche moderne, che ne assicurano la qualità, si pensi ad esempio al Ravece, dal fruttato verde con un’equilibrata nota di amaro e piccante.

13 dicembre: Santa Lucia. La festa civile si celebra con un falò.

Il giorno prima, a Villanova, era vigilia e si seguivano le stesse regole del giorno dell’Immacolata.

Dal 13 dicembre partono le calende. In pratica, dal 13 in poi si considera ogni giorno come un mese dell’anno: il 13 è Gennaio, il 14 è Febbraio, e così via. Il 24 dicembre corrisponde a Dicembre. Il giorno di Natale non si conta e si ricomincia dal 26, che è di nuovo Dicembre, infatti ora si contano i mesi al contrario. Il conto si conclude il 6 gennaio che corrisponde proprio a Gennaio. Questa corrispondenza tra i giorni e i mesi serve per fare previsioni meteorologiche. Infatti, al clima reale del giorno corrisponderebbe il clima ipotetico del mese associato. I due mesi uguali che entrano nel computo, se corrispondono a giornate il cui clima reale è in netta contraddizione, avranno un clima ipotetico che è il risultato di una specie di media.

14 dicembre: S. Giovanni del Colera. La festa civile si celebra con un falò.

La terza festa dedicata a San Giovanni cade il 14 dicembre, giorno in cui si ricorda a Villanova la cessazione di un’epidemia di colera. Ma a quale epidemia si riferisce? A quella del 1837 o a quella del 1854? In effetti le leggende (o i miracoli) sono due.

  1. La statua di S. Giovanni dell’omonima chiesa non uscì mai dalla sua nicchia finché, per uno scoppio di entusiasmo popolare, suscitato da un certo sogno, ci furono degli audaci che la rimossero e la esposero, cosicché il colera che nel 1837 imperversava, immediatamente il 14 dicembre cessò.
  • Nel 1854, durante un’epidemia di colera, i tanti Villanovesi che morivano erano seppelliti in fosse comuni, in località Gravizza. Il 13 dicembre, San Giovanni apparve in sogno ad una vecchietta e le spiegò come curare la malattia (vedi capitolo Sturielle), lei fece come il santo aveva chiesto e l’epidemia cessò.

Ogni 14 dicembre, in ricordo di qualcosa che ha a che fare col colera e San Giovanni, si osserva ancora oggi una giornata di digiuno.

In passato, il 14 dicembre si portavano in processione le reliquie del santo, poi si portò solo la statua. Ora la processione non si fa più.

25 dicembre: Natale

A Villanova si dice che se si compiono lavori durante il periodo di luna crescente e se questo include la giornata di Natale, si avrà un abbondante raccolto.

La figura di Babbo Natale, dispensatore di doni, è la trasformazione moderna e americana del culto di San Nicola che, a sua volta, rientrava nel processo di cristianizzazione delle antichissime feste legate al solstizio d’inverno, presiedute a Roma da Saturno, il dio che offriva i suoi doni al cosmo che si rinnovava. A Villanova, la civiltà contadina del passato non ha mai fatto suoi i personaggi di Babbo Natale o di San Nicola, con i risvolti consumistici che questo poteva comportare. Non è certo così adesso.

La notte della Stella di Natale, cioè la vigilia di Natale, a Villanova si lasciava un ceppo acceso nel camino (ora si lascia una luce accesa in cucina) sia perché la Madonna doveva far asciugare le fasce per il Bambino sia per far riscaldare il piccolo Gesù.

La vigilia di Natale si mangiava:

carduscielli, spirella e scagnozza; baccalà ‘ndurat’e fritto o zuppa di cavolfiore, baccalà e sedano; peperoni ripieni; in ultimo, zeppole, noci e castagne.

A Natale si pranzava con:

pasta fatta in casa (ad esempio cavaijuoli), pollo o tacchino al sugo, piparuli chini; dolci e frutta uguali al giorno prima.

La mattina di Natale, come a Pasqua, si preparavano delle cuppatelle da regalare a parenti, vicini di casa e persone in lutto; si riempivano con: baccalà, peperoni ripieni e zeppole.

In generale le feste di Natale, oltre agli aspetti religiosi, offrivano (e in fondo offrono ancora) l’occasione per grandi riunioni di famiglia, durante le quali si mangiava e ci si divertiva insieme.

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